Gli Avvocati penalisti dello Studio tutelano coloro che vengano accusati o che siano vittime dei reati di stalking cyberstalking, stalking on line e sui social network, stalking condominiale fornendo una serie di servizi legali utili all’assistito, quali, ad esempio:
– consulenza e assistenza tecnica in sede di indagini preliminari;
– investigazioni difensive;
– redazione di ricorsi avverso provvedimenti cautelari;
– assistenza per tutta la durata del processo;
– redazione di atti di Appello e di ricorsi per Cassazione.
Premesso che nel concetto di stalking (atti persecutori) rientrano tutti quegli atteggiamenti morbosi e ossessivi tenuti da un individuo (c.d. stalker) che affliggono un’altra persona, perseguitandola, generandole stati di paura e ansia, arrivando persino a comprometterne lo svolgimento della normale vita quotidiana, nell’odierno contesto socio-culturale sempre più spesso si sente parlare di cyberstalking: detto fenomeno si caratterizza per le modalità di attuazione della minaccia o della molestia di natura persecutoria, che avvengono prevalentemente o esclusivamente con l’ausilio di mezzi informatici o telematici, o, per meglio dire, attraverso app di messaggistica istantanea e privata, tra cui si annoverano Whatsapp, Telegram, Facebook/messenger, Instagram nonché a mezzo e-mail.
Ebbene, proprio in considerazione del proliferare dei casi di atti persecutori realizzati mediante il web, nel 2013 è stata introdotta al comma 2 dell’art. 612 bis c.p. una specifica ipotesi di aggravamento nel caso in cui lo stalking venga realizzato nella variante cyber. Ciò, ovviamente, a patto che alle condotte molestie reiterate nel tempo si accompagni almeno uno dei tre eventi tipici del reato: perdurante e grave stato di ansia o di paura, fondato timore per l’incolumità propria o di altri oppure alterazione delle abitudini di vita della vittima.
La Corte di Cassazione ha recentemente condannato per cyberstalking un uomo reo di aver pubblicato reiteratamente su Facebook foto della ex compagna, in tal modo realizzando un’indebita ingerenza nella vita privata e relazionale della vittima. Tali pubblicazioni, infatti, avevano contribuito a creare un clima intimidatorio ed ostile attorno alla donna, idoneo a compromettere la serenità e la libertà psichica della medesima, rafforzando, proprio in ragione della loro notevole capacità diffusiva, il sentimento di soggezione di quest’ultima rispetto alle condotte persecutorie dell’ex fidanzato (Cass. Pen., Sez. V, 23 novembre 2021, n. 10680).
Accade spesso, poi, che colui che abbia un intento persecutorio crei un account Facebook falso col nome della vittima designata sul quale vengono pubblicate frasi e foto di quest’ultima, come se fosse lei stessa a gestire il profilo. A tal riguardo, la Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di atti persecutori anche nel caso in cui le reiterate molestie vengano realizzate attraverso profili social e account Internet falsamente riconducibili alla vittima, con i quali si inducano soggetti terzi a ritenere che la vittima sia disponibile ad approcci sessuali, così da avvicinarla allo scopo di realizzare aspettative di tal genere; ciò, ovviamente, a patto che l’autore agisca nella consapevolezza della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (Cass. Pen., Sez. V, n. 323 del 14 ottobre 2021, n. 323).
Attenzione, perché anche l’apposizione di un like (c.d. “mi piace”) su una o più foto postate dalla persona offesa sulla propria bacheca Facebook può essere ricompresa tra le condotte moleste o minatorie che integrano il reato di atti persecutori, in quanto possono determinare l’alterazione delle abitudini di vita o il grave stato di ansia o paura da parte della persona offesa. Allo stesso modo, pure la reiterata pubblicazione, sul profilo Facebook dello stesso imputato, di messaggi aventi contenuto minaccioso nei confronti della persona offesa integra il delitto di atti persecutori quando determini attorno alla vittima un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica (Cass. Pen., Sez. V, 31 marzo 2021, n. 19363).
Non integra, invece, il reato di cyberstalking la pubblicazione su Facebook di post meramente canzonatori e irridenti, inidonei dunque a impaurire o a turbare il destinatario dei medesimi (Cass. Pen., Sez. V, 3 novembre 2020, n. 34512).
Ancora, recentemente la Corte di Cassazione ha avuto modo di confrontarsi ancora una volta con l’ipotesi di molestie reiterate nel tempo e non direttamente rivolte alla vittima. Il caso ha riguardato un uomo che, scontata la pena per un precedente stalking e tornato in libertà, aveva nuovamente molestato e impaurito la medesima donna vittima del precedente reato ponendo in essere essenzialmente due condotte:
– aveva apposto un like su una foto postata dalla persona offesa sulla propria bacheca Facebook, così mirando a far sapere alla vittima della sua precedente persecuzione di essere tornato in libertà dopo aver scontato la condanna e di tenerla, nuovamente, sotto controllo;
– aveva poi tenuto delle conversazioni indesiderate (attraverso l’invio di messaggi di testo e di whatsapp vocali) con un’amica intima della persona offesa nel corso delle quali, oltre a molestare la propria diretta interlocutrice, aveva fatto espresso riferimento alla persona offesa, evocando, tra l’altro, il suo tentativo di suicidio qualora lei non avesse acconsentito a vederlo.
Ebbene, nel condannare l’uomo, la Cassazione ha ribadito con chiarezza che, ai fini della integrazione della condotta tipica prevista dall’art. 612 bis c.p., assumono rilievo anche le molestie c.d. “indirette”. Si allude a comportamenti di carattere molesto o minatorio diretti in prima battuta a destinatari diversi dalla persona offesa, ma a quest’ultima legati da un rapporto qualificato di vicinanza, come ad esempio un parente o un’amica; in tali casi, infatti, il persecutore agisce nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza dell’idoneità del proprio comportamento abituale a produrre ansia, paura o turbamento nella vittima designata (Cass. Pen., Sez. V, 8 luglio 2022, n. 26456; vedi anche Cass. Pen., Sez. V, 16 febbraio 2021, n. 8919).
Talvolta accade, soprattutto all’interno dei contesti condominiali, che la persona che assume di essere vittima di atti persecutori abbia ella stessa avuto nei confronti del presunto stalker atteggiamenti minacciosi o molesti, pur di lieve entità. Ebbene, ciò basta di per sé ad escludere lo stalking?
Recentemente la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dagli imputati, condannati dal giudice d’Appello per stalking, percosse e lesioni personali nei confronti di una famiglia residente all’interno dello stesso edificio condominiale, responsabili, a loro dire, di fare troppo rumore. Nel caso di specie, si è evidenziato che la condotta aggressiva, violenta e prevaricatrice degli imputati è stata di entità tale da costringere le persone offese a cambiare le proprie abitudini, come ad esempio uscire sempre in due, indurre il minore a farsi accompagnare fino all’uscio di casa da alcuni amici o addirittura trasferirsi altrove, seppur per un breve periodo di tempo.
In conclusione, è stato precisato che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, gli atti persecutori non vengono meno a causa delle asserite condotte “offensive” tenute dalle persone offese nel caso in cui, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, emerga una sproporzione evidente tra le azioni degli imputati e quelle attribuibili alle vittime (Cass. Pen., Sez. V, 23 gennaio 2020, n. 2726).
Come meglio specificato in altre occasioni dalla Suprema Corte, peraltro, in tali casi di reciprocità delle molestie, in capo al giudice grava un onere di motivazione rafforzato che accerti in concreto il verificarsi dell’evento lesivo tipico dello stalking, perché è proprio questo a segnare la differenza in termini di responsabilità penale tra i due litiganti. In altre parole, lo stalking è escluso solo nel caso in cui venga accertato che le reciproche aggressione sono maturate in un ambito di litigiosità in cui i soggetti agivano in maniera paritaria, senza che l’uno fosse fisicamente e psichicamente assoggettato all’altro; la mancanza di assoggettamento dell’uno all’altro, infatti, rende automaticamente le molestie attuate inidonee a turbare o impaurire in concreto il destinatario delle medesime.
A quanto detto, poi, si aggiunga che il delitto di atti persecutori è ravvisabile anche quando le condotte di violenza o minaccia integranti la “reiterazione” criminosa siano intervallate da un prolungato lasso temporale, che si tratti di mesi o anche di anni (Cass. Pen., Sez. V, 22 aprile 2021, n. 30525). Perdipiù, il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non interrompe l’abitualità del reato e, dunque, non esclude il perfezionarsi del delitto di stalking (Cass. Pen., Sez. V, 26 settembre 2019, n. 46165).
Il caso riportato a esempio è quello di un uomo condannato, prima dal Tribunale e poi dalla Corte di Appello, per il reato di atti persecutori commesso in danno della ex convivente, madre di suo figlio, il quale ha presentato ricorso in Cassazione lamentando l’errore del giudice di secondo grado che aveva considerato vessatorie quelle che invece erano condotte dirette esclusivamente ad esercitare il suo diritto – garantito anche dalla legislazione comunitaria – di avere rapporti affettivi e di frequentazione con il figlio minorenne, nato dalla relazione con la donna, persona offesa. Aggiungeva che ove mai tale reato fosse stato configurabile si sarebbe dovuta ravvisare la scriminante dell’aver agito nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.), inerenti alla condizione di genitore.
I giudici di legittimità, tuttavia, hanno ritenuto inammissibile il ricorso, escludendo che le chiamate telefoniche, le minacce e i pedinamenti, per le modalità e la frequenza, fossero realmente finalizzati ad incontrare o ad avere notizie del bambino. Inoltre, la Cassazione ha ricordato che le condotte vessatorie poste in essere dall’imputato erano state di grande impatto sulla vita quotidiana della vittima e sulla sua serenità psichica: si è trattato di incursioni in casa, danneggiamenti dell’autovettura della persona offesa e dei genitori, innumerevoli chiamate telefoniche a qualsiasi orario, minacce di morte, atti vandalici, quali la rottura delle serrature di casa o l’imbrattamento dei muri esterni dell’edificio, pedinamenti.
Ebbene, come già aveva correttamente ritenuto la Corte d’Appello e come ha poi confermato dalla Cassazione, non hanno avuto alcuna rilevanza gli argomenti relativi ai rapporti padre-figlio, dato che le condotte vessatorie sono state dirette esclusivamente a colpire la ex convivente e madre del bambino, senza alcun nesso con la condizione di genitore, di talché l’imputato è stato condannato in via definitiva per il reato di stalking (Cass. Pen., Sez. V, 31 marzo 2020, n. 10904).
Nel 2019 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato da un uomo contro una sentenza della Corte di Appello di Milano che lo aveva condannato a 3 anni e 8 mesi di reclusione per vari reati, tra i quali appunto gli atti persecutori, nei confronti dell’ex fidanzata; ciò, sulla base della considerazione secondo cui quando le condotte asseritamente moleste si inseriscono in un contesto amicale con la vittima, come nel caso di specie, non può aversi stalking (Cass. Pen., Sez. V, n. 36621/2019).
Come dimostrato dall’imputato nel corso del dibattimento in primo grado, infatti, la donna non aveva messo in atto nessuna modificazione delle abitudini di vita né aveva mai presentato uno stato di timore o turbamento, eventi questi che sono specificatamente richiesti dalla norma incriminatrice. Nelle prove apportate durante il processo, in particolar modo, risultava un messaggio vocale inviato dalla persona offesa all’imputato da cui emerge chiaramente il rapporto di confidenza e familiarità che hanno i due ex fidanzati; ed invero la donna parlava di una nuova abitazione ove si sarebbe trasferita, segno di progettualità comune tra le parti.
Dalla stessa sentenza di Appello, del resto, emerge che “la donna si era limitata a riferire di aver trovato due possibili soluzioni per la nuova abitazione in cui trasferirsi e che dal tenore del messaggio emergeva una confidenza compatibile con il fatto che la donna non provava rancore per l’imputato, ma che era disposta a mantenere i contatti, in una logica di contenimento danni, purché al di fuori di una relazione ormai percepita come morbosa”.
Ebbene, nell’assolvere l’imputato dallo stalking, la Cassazione ha precisato che detto reato contempla un insieme di condotte persecutorie ripetute nel tempo che provocano in concreto un danno psichico alla vittima, incidendo sulla sua sfera personale e relazione, ciò che non può accadere nel caso in cui tra persecutore e perseguitato sussista un rapporto di amicizia tale da escludere che l’uno sia assoggettato all’altro o che lo subisca in qualche modo.
Sostanzialmente, lo stalker è un individuo affetto da una problematica di natura affettivo-emotiva, che trova sfogo il più delle volte in una serie ripetuta di comportamenti di sorveglianza e/o comunicazione e/o ricerca di contatto, con l’obiettivo di creare una relazione di controllo e di assoggettamento con la persona destinataria di dette condotte.
Come emerso dagli studi in materia condotti dalla Sezione Specializzata dei Carabinieri, due sarebbero le categorie di attaccamento morboso che lo stalker/cyberstalker mostra nei confronti della vittima designata:
– attaccamento affettivo-amoroso;
– attaccamento persecutorio-irato.
Quanto, poi, alle tipologie di stalker/cyberstalker individuate, ve ne sono cinque:
– il rancoroso, il quale, al fine di vendicarsi di un torto subito o presunto, cerca vendetta ledendo l’immagine o le proprietà di chi ha causato il suo dolore e il danno;
– il respinto, ossia un ex partner che non vuole accettare la rottura del legame amoroso e tenta in ogni modo di ristabilire una relazione sentimentale con la vittima;
– il bisognoso d’affetto, il quale è mosso dal desiderio ardente di trasformare un rapporto ordinario in una relazione affettiva con la vittima (medico-paziente oppure insegnante-alunno);
– il corteggiatore impacciato, che, per sua incapacità relazione, fatica ad instaurare conoscenze e finisce così per risultare aggressivo e opprimenti nei confronti della vittima;
– il predatore, ossia colui che è mosso dal mero desiderio sessuale nei confronti della vittima.
Per ciò che riguarda, invece, il soggetto passivo del reato di stalking, la Cassazione ha ritenuto che questo può essere costituito anche contemporaneamente da più persone; basti pensare al caso di una condanna per atti persecutori in danno di una coppia di coniugi (Cass. Pen., Sez. V, 5 marzo 2015, n. 29826). Ciò detto, tre sono le tipologie classiche di vittime:
– quelle primarie o dirette, come ad esempio contatti lavorativi o sconosciuti;
– quelle secondarie;
– quelle che sono affette da un disturbo psicopatologico e che asseriscono di subire molestie.
Si tenga presente, inoltre, che l’art. 612 bis c.p., al comma 3, prevede un aumento di pena nel caso in cui la vittima del reato sia un soggetto ritenuto meritevole di una tutela rafforzata, ossia un minore, una donna in stato di gravidanza oppure un soggetto affetto da disabilità.
Ma quali sono i campanelli d’allarme del cyberstalking? In quali casi l’utente dovrebbe allarmarsi? Nel c.d. cyberspazio vi sono utenti più ingombranti di altri e il cyberstalker, attraverso modalità simili allo stalker, lede l’immagine e la libertà della vittima ricorrendo spesso ad azioni mirate che possono costituire un utile campanello d’allarme per la vittima. Tra questi abbiamo:
– le manie di controllo, in quanto i cyberstalker pedinano virtualmente la vittima e sono soliti scriverle quando risulta online, ripetutamente e per lunghi periodi di tempo;
– le molestie a qualsiasi ora del giorno, poiché i cyberstalker scrivono a orari inopportuni, in modo reiterato e spesso offensivo o minaccioso;
– l’anonimato, in quanto i cyberstalker utilizzano spesso profili falsi (fake) dietro ai quali si nascondono per evitare che qualcuno possa riconoscerlo. Questo, peraltro, contribuisce ad aumentare il livello di disinibizione (disinibition effect) e di aggressività nei confronti della vittima.
A conclusione di quanto detti sinora, si rammenta che la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha predisposto un numero verde, il 1522, disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte per tutti coloro che ritengano di essere vittime di atti persecutori.
A seguito della riforma apportata dal “Codice rosso” nel 2019, lo stalking è attualmente punito con la pena della reclusione da 1 a 6 anni e 6 mesi. Detta pena, tuttavia, è aumentata di 1/3 se lo stalker è o è stato legato da relazione sentimentale o affettiva con la vittima ovvero se vengono utilizzati strumenti informatici o telematici (cyberstalking); l’aumento è invece fino alla metà se il reato è commesso in danno di un minore, di donna in stato di gravidanza o di un disabile.
Il reato si prescrive nel termine di 6 anni e 6 mesi, più 1/4 in caso di eventuali atti interruttivi del procedimento penale.
Attenzione, però, perché nell’ipotesi aggravata prevista dal comma 3 (fatti commessi in danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di un disabile) il termine prescrizionale è di 9 anni e 9 mesi, cui si aggiunge 1/4 per eventuali interruzioni del procedimento. Inoltre, se la vittima è un minorenne il termine prescrizionale decorre a partire dal compimento del suo diciottesimo anno di età, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente (art. 158 c.p.).
Venendo agli aspetti procedurali in materia di atti persecutori, si tratta di un reato procedibile a querela della persona offesa, ma i termini per proporla sono estesi a 6 mesi. Attenzione, poi, alla specifica ipotesi prevista dall’ultima parte del comma 4 (se la vittima è un minore o un disabile ovvero se lo stalking è connesso con altro reato per il quale si procede d’ufficio) che è procedibile d’ufficio. Si procede d’ufficio, inoltre, anche nel caso in cui lo stalker abbia già subito precedentemente un ammonimento dal questore, ossia un invito a cessare l’attività molesta.
La querela, ovviamente, può essere rimessa da parte di chi l’ha sporta, ma ciò può essere fatto soltanto in aula dinanzi al giudice per garantire la piena libertà e attendibilità del rimettente.
La competenza spetta al Tribunale in composizione monocratica.
L’arresto è obbligatorio in flagranza e il fermo è consentito.
Sono consentite le misure cautelari e le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, come mezzo di ricerca della prova.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’uffici.