Diffamazione a mezzo social - Avvocato penalista Roma

Diffamazione a mezzo social network: casistica, rischi e possibili strategie difensive

ART. 595 DEL CODICE PENALE

Gli Avvocati dello Studio tutelano coloro che vengano accusati o che siano vittime dei reati di diffamazione a mezzo social network, fornendo una serie di servizi legali utili all’assistito, quali, ad esempio:

– consulenza e assistenza tecnica in sede di indagini preliminari;

– investigazioni difensive;

– redazione di ricorsi avverso provvedimenti cautelari;

– assistenza per tutta la durata del processo;

– redazione di atti di Appello e di ricorsi per Cassazione.

Diffamazione a mezzo social network

In quella che può essere definita l’era dei social network, è certamente capitato a tutti noi di imbatterci (da autori, da vittime o da meri spettatori) almeno una volta in qualche frase o parola offensiva pubblicata su una pagina Facebook, su Instagram o su altro tipo di piattaforma web.

Ebbene, attenzione a non fare l’errore di pensare che i social network siano uno spazio senza legge, dove essenzialmente le condotte illecite finirebbero per sfumare senza conseguenze, perché in maniera molto celere tanto il panorama legislativo quanto quello giurisprudenziale si sono adeguati allo sviluppo tecnologico introducendo integrazioni alle norme penali, mostrando una certa severa attenzione per questo tipo di fenomeni, evidenziando come le offese sui social possano integrare una molteplicità di reati, tra cui soprattutto la diffamazione e la minaccia.

Con specifico riguardo alla diffamazione a mezzo social network, da sempre la Cassazione ha ritenuto integrata in tal taso la fattispecie aggravata prevista dall’art. 595, comma 3, c.p. (reclusione da 6 mesi a 3 anni se l’offesa è recata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”), sancendo che la pubblicazione di una frase diffamatoria su di un profilo Facebook «rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network e, anche per le notizie riservate agli “amici”, ad una cerchia ampia di soggetti»; da ciò deriverebbe che postare un messaggio offensivo sul proprio profilo integra il dolo prescritto dall’art. 595 c.p., consistente nella mera volontà che la frase giunga a conoscenza di due o più persone, il che rende penalmente irrilevante che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona (Cass. Pen., Sez. I, 22 gennaio 2014, n. 16712).

Ebbene, gli Avvocati dello Studio si occupano ormai da anni della difesa in giudizio di persone accusate di diffamazione aggravata oppure che siano persone offese del reato in questione, mettendo a disposizione dei propri assistiti tutto il supporto tecnico necessario e offrendo una serie di servizi legali mirati, quali:

– consulenza e assistenza tecnica in sede di indagini preliminari;

– investigazioni difensive, ricorrendo eventualmente ad esperti di informatica per verificare la veridicità degli screenshot prodotti dalla parte offesa;

– assistenza per tutta la durata del processo;

– redazione di atti di Appello e di ricorsi per Cassazione.

Il presente articolo si propone di illustrare parte dell’ampia e recentissima casistica di diffamazione sui social, illustrando i rischi connessi a detto reato e quelle che possono essere le strategie difensive da adottare nel caso in cui ci si trovi ad essere indagato/imputato in un procedimento penale per diffamazione a mezzo Facebook oppure, al contrario, nel caso in cui ci si ritenga vittima di tale reato.

La diffamazione a mezzo Facebook.

Dare del «parassita» o della «mantenuta» su Facebook a una donna che percepisce l’assegno di mantenimento dall’ex marito può integrare il reato di diffamazione? La Suprema Corte di Cassazione, trovatasi di recente a decidere su un caso di una donna la quale aveva pubblicato sul proprio profilo Facebook un post contenente espressioni offensive come «Vai a lavorare invece di farti mantenere», nonostante l’accertamento della condotta, ha ritenuto di dover assolvere l’autrice del post in quanto le espressioni utilizzate, seppur sferzanti, sono apparse lecite, in quanto espressive del diritto di libera manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 della Costituzione (Cass. Pen., n. 32585/2022).

Quella realizzata dall’imputata, come ritenuto dai giudici, è stata una polemica che, pur attuata con toni aspri, ironici e sferzanti, non è mai trascesa nell’attacco personale gratuito, mostrandosi dunque pertinente rispetto alla lite in atto circa l’entità dell’importo dell’assegno di mantenimento nonché proporzionata al fatto narrato e al concetto da esprimere, senza ricorrere mai a toni immotivatamente aggressivi dell’altrui reputazione. I post in questione, perdipiù, si inserivano in un contesto dialettico già in essere tra le parti, tanto che la persona offesa aveva utilizzato proprio dei post di Facebook per provare il tenore di vita dell’ex coniuge e della nuova compagna.

I giudici, infine, hanno ricordato in motivazione che, perché possa ritenersi integrato il reato di diffamazione, previsto dall’art. 595 c.p. che punisce «chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione», da un lato non è sufficiente il fatto di utilizzare toni forti e sprezzanti, ma dall’altro non è neanche necessario usare parolacce e insulti. Tutto ciò che, invero, è determinante affinché si possa essere condannati per diffamazione, è che vi sia un attacco personale gratuito, tale da ledere in concreto l’integrità morale o professionale della vittima, mediante il ricorso ad espressioni che superano i limiti della pertinenza e della c.d. continenza (la pacatezza nel manifestare il proprio pensiero), ciò che non è accaduto con riferimento al caso citato: si è trattato, infatti, di una critica che ha espresso semplicemente il risentimento e la censura da parte dell’imputata per la pretesa della persona offesa di mantenere l’assegno di mantenimento già stabilito, accolta peraltro poi dal giudice.

Decisione di segno opposto rispetto a quella appena riportata è stata presa dalla Corte di Cassazione con riferimento a un caso di contestata diffamazione mediante un post su Facebook da parte di un professore il quale aveva definito spregevole un suo collega d’istituto, accusandolo di manipolazioni psicologiche in danno dei propri studenti. In tale occasione, la Corte, ritenendo le parole utilizzate dal docente del tutto esorbitanti e non pertinenti rispetto alla finalità di disapprovazione dei metodi di insegnamento adottati dal collega, ha confermato la condanna dell’imputato in quanto lo scritto pubblicato eccedeva i confini del diritto di critica (Cass. Pen., Sez. V, 25 gennaio 2021, n. 13979).

Sulla centralità del requisito della continenza si è recentemente spesa la Cassazione, evidenziando la necessità di effettuare un’analisi attenta e, soprattutto, elastica sul punto, in quanto, al fine di ritenere o meno proporzionalmente e/o funzionalmente eccedenti i limiti del diritto di critica in relazione a tale requisito, occorre compiere non solo in astratto, ma soprattutto in concreto un ragionamento di tipo critico-logico che tenga conto di una serie di “parametri” quali, non solo il tenore letterale delle espressioni rese, ma anche il concetto o messaggio che si vuole esprimere o trasmettere, il contesto dialettico in cui le stesse dichiarazioni vengono rese (per esempio, in occasione di una discussione o in sede di dibattito) e le modalità con cui esse sono manifestate e/o reiterate (Cass. Pen., Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 12186).

Sul tema della potenzialità lesiva dei post pubblicati su Facebook, poi, si è spesa anche la recente giurisprudenza di merito, evidenziando come detti post «sono caratterizzati da elevati soggettivismo, improvvisazione e relatività, oltre che da strutturale apertura ad immediati commenti contrastanti e smentite, che hanno l’effetto di limitare la loro potenzialità lesiva della reputazione»; da ciò deriverebbe che tutti quei messaggi sguaiati e faziosi utilizzati deliberatamente al fine di offrire rappresentazioni falsate e denigratorie di persone o eventi si condannano ad una sostanziale irrilevanza penale e inoffensività, rientrando nell’area delle esternazioni che, pur inopportune, non eccedono comunque i confini del diritto di critica (Trib. Lanciano, Sez. I, 20 gennaio 2022, n. 43).

Ancora, nella diffamazione a mezzo Facebook, l’inserimento di post offensivi dell’altrui decoro in una pagina non personale ma in quella di una testata giornalistica facilmente accessibile a qualsiasi utente della piattaforma comporta l’indubbia pubblicità dello scritto diffamatorio, a nulla rilevando l’effettivo numero di visualizzazioni, commenti ed interazioni ottenute (Trib. Trieste, 29 settembre 2021, n. 1171).

Sempre in tema di diffamazione a mezzo Facebook, infine, la Suprema Corte ha stabilito che l’offesa in una chat condivisa su Facebook non costituisce reato se il destinatario è online. La presenza (fisica o virtuale) della vittima nel momento in cui viene manifestata l’offesa, infatti, costituisce l’elemento essenziale di distinzione tra la diffamazione e l’ingiuria, ormai depenalizzata, facendo ricadere la condotta nella seconda ipotesi (Cass. Pen., Sez. V, 26 ottobre 2021, n. 44662). Aggiunge poi la Cassazione che lo stesso ragionamento opera anche laddove gli insulti vengano proferiti durante una riunione da remoto tra più individui, compreso l’offeso: anche in questo caso si ricadrebbe nell’ormai depenalizzato reato di ingiuria (in tal senso Cass. Pen., Sez. V, n. 10905/2020).

C’è diffamazione anche se non viene riportato il nome dell’offeso?

La giurisprudenza si è espressa da sempre in maniera univoca sul punto, ritenendo che c’è diffamazione anche quando il destinatario delle offese, pur senza l’indicazione del nome e del cognome, sia agevolmente identificabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi storico-fattuali riportati in concreto, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, nonché i riferimenti personali e temporali.

Per citare un esempio recente di diffamazione a mezzo Facebook senza indicare nominativamente la persona dell’offeso, si pensi a coloro che hanno pubblicato sul loro profilo Facebook post contenenti frasi ingiuriose nei confronti di un avvocato, senza però indicarne il nome; in tal caso, essendo state rivolte ad un soggetto affetto da nanismo frasi denigratorie riferite a tale caratteristica fisica, le quali, unitamente ai chiari riferimenti alla sua professione, facevano ben comprendere a chi fossero destinate tali ingiurie, quantomeno da parte degli amici e conoscenti più stretti, si è ritenuto di condannare gli imputati (Cass. Pen., Sez. V, 10 dicembre 2021, n. 10762).

Attenzione ai “mi piace” e alle condivisioni di post diffamatori

Mettiamo il caso che Tizio condivida un post di contenuto diffamatorio e Caio, suo “amico” su Facebook, lo ricondivida sulla sua bacheca; in tal caso, ovviamente, anche Caio sarà perseguibile per diffamazione, poiché in tal modo allarga la diffusione e la conoscenza del messaggio anche ai suoi contatti virtuali, concorrendo alla lesione della reputazione del soggetto diffamato. In altre parole, è ciò che in materia diffamazione a mezzo stampa accade ogniqualvolta un giornale pubblica contenuti di una notizia (diffamante) estrapolata da un altro giornale.

Sempre con riferimento all’esempio riportato, ad ogni modo, Caio potrebbe anche essere chiamato a rispondere autonomamente per diffamazione a prescindere dalla portata diffamatoria del post pubblicato da Tizio, ciò nel caso in cui Caio scriva un commento al post considerato di per sé lesivo della reputazione della persona offesa. Un caso interessante di tal tipo è stato affrontato nel 2017 dal Tribunale di Campobasso ed ha visto condannati sia l’autore del post originario, reo di aver scritto un post diffamatorio nei confronti di un magistrato che lo aveva multato per non essersi presentato a deporre come testimone in un processo, sia i due “amici” di Facebook che avevano aggiunto al medesimo commenti altrettanto diffamatori, a nulla rilevando che il post comprensivo di tutti i commenti fosse stato poi rimosso dall’autore, in quanto il reato si era già perfezionato nel momento in cui i contatti Facebook del medesimo ne avevano preso visione (Trib. Campobasso, 2 ottobre 2017, n. 396).

Quanto, invece, a chi si limiti a mettere un “like” ad un post diffamatorio senza commentarlo né condividerlo? Sulla base della considerazione secondo cui anche il semplice “mi piace” porta a conoscenza, pur per un periodo di tempo più limitato e sulla sola home, dell’esistenza di quel messaggio diffamatorio, si sono avuti in Italia già due casi di rinvio a giudizio: un primo caso riguarda un post in cui si accusava il sindaco  e alcuni dipendenti comunali di un paese del brindisino di essere “fannulloni e assenteisti”; un secondo caso in cui la Procura di Genova ha contestato la diffamazione aggravata a coloro che avevano messo un “like” ad un post di contenuto raziale nei confronti di persone di etnia rom.

Può aversi diffamazione anche tramite messaggi whatsapp?

Fenomeno molto frequente tra gli utilizzatori di whatsapp è quello della creazione di “chat di gruppo” in cui vi sono persone che spesso condividono interessi comuni (ad esempio, colleghi di lavoro, compagni di scuola ecc…) e che permettono l’invio contestuale di messaggi a più persone; conseguenza di ciò è che anche detti gruppi possono diventare un mezzo di diffusione di messaggi diffamatori, per cui anche la condivisione di messaggi pensieri su tale piattaforma potrebbe integrare il reato di diffamazione aggravata.

Posto che nessun dubbio esiste circa la sussistenza della diffamazione se la persona diffamata non è membro del gruppo whatapp, quanto alla diversa ipotesi in cui anche l’offeso ne faccia parte, invece, la Corte di Cassazione ha recentemente chiarito che «in caso di offese all’interno di una chat di whatsapp, la percezione da parte della vittima dell’offesa può essere contestuale ovvero differita, a seconda che ella stia consultando proprio quella specifica chat di whatsapp o meno; nel primo caso, vi sarà ingiuria aggravata dalla presenza di più persone quanti sono i membri della chat perché la persona offesa dovrà ritenersi virtualmente presente; nel secondo caso si avrà diffamazione, in quanto la vittima dovrà essere considerata assente». Il centro dell’argomentazione cui hanno fatto ricorso i giudici sta nel fatto che soltanto nella prima ipotesi il soggetto vilipeso ha immediata percezione dell’offesa e, di conseguenza, può controbattere, tutelando il proprio onore (Cass. Pen., Sez. V, 10 giugno 2022, n. 28675).

È diffamazione anche quella che avviene a mezzo posta elettronica?

Riportando un caso pratico recentemente affrontato dalla Corte di Cassazione, si pensi ad un condomino che invii ad un altro condomino del medesimo stabile una mail denigratoria nei confronti dell’amministratore di condominio in cui ci si lamenti del lavoro svolto da quest’ultimo; sarà configurabile la diffamazione aggravata?

Ebbene, i giudici di legittimità hanno ritenuto integrato in tal caso il reato in parola, ritenendo che «il requisito oggettivo della comunicazione con più persone sussiste anche nella ipotesi di diretta ed esclusiva destinazione del messaggio diffamatorio, inviato tramite posta elettronica, ad una sola persona determinata; e ciò sia quando l’accesso alla casella mail sia consentito almeno ad un altro soggetto, a fini di consultazione, estrazione di copia e di stampa, e tale accesso plurimo sia noto al mittente o, quantomeno, prevedibile secondo l’ordinaria diligenza, sia in tutti i casi in cui la comunicazione inviata via mail a un solo soggetto sia, come prevedibile – con giudizio da operarsi ex ante rispetto alla ricezione -, stata diffusa o comunque posta a conoscenza di almeno un altro soggetto» (Cass. Pen., Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 12186).

Stesso discorso vale anche per l’ipotesi di trasmissione di messaggi denigratori a mezzo posta elettronica certificata (PEC). Come affermato dalla Cassazione in una recente vicenda che aveva visto inviare all’indirizzo PEC del dirigente del settore urbanistica comunale una missiva di contenuto diffamatorio – al fine di sollecitare una verifica in autotutela dei provvedimenti abilitativi emessi, si denunciavano valutazioni tecniche “compiacenti” dell’ufficio nella gestione delle pratiche edilizie -, anche nell’ipotesi di diretta ed esclusiva destinazione ad un solo indirizzo di posta può aversi diffamazione, in quanto la certificazione garantisce la prova dell’invio e della consegna della comunicazione, ma non ne esclude di per sé la potenziale accessibilità a terzi diversi dal destinatario a fini di consultazione, estrazione di copia e di stampa, per la cui prevedibilità in concreto da parte del diffamatore è comunque richiesta un onere della prova rafforzato (Cass. Pen., Sez. V, 23 ottobre 2020, n. 34831).

Lo screenshot di un post diffamatorio costituisce prova nel processo?

Che si tratti di diffamazioni su siti web oppure su piattaforme quali Facebook o Twitter, può accadere che lo scritto, il filmato o l’immagine lesiva dell’altrui onore venga cancellata successivamente alla sua pubblicazione, quando però il reato è comunque già stato commesso e il danno già prodotto, avendone gli altri utenti preso visione. Come può cautelarsi in tal caso la persona offesa?

Beh, ovviamente è sempre bene fare uno screenshot del post che si assume essere lesivo, in modo tale da poterlo immediatamente allegare alla querela che si intende sporgere a mezzo del proprio legale a prescindere da un’eventuale cancellazione del post medesimo.

Ciò detto, il giudice può valutare liberamente lo screenshot, che assume sostanzialmente mero valore indiziario, posto che questo può essere agevolmente alterato o addirittura creato da zero se si ha una buona dimestichezza con il computer. Ed ecco perché chi ritenga di essere stato diffamato a mezzo internet dovrebbe anche salvare sul PC l’intera pagina in html (il codice sorgente) indicando l’ora esatta del salvataggio e il browser utilizzato, in modo tale da cautelarsi anche nel caso in cui l’imputato dovesse contestare la veridicità dello screenshot – ipotesi questa che, per il vero, è molto poco diffusa nelle aule di giustizia -, il che comporterebbe accertamenti ulteriori da parte della Polizia Postale ed eventualmente la richiesta di informazioni specifiche direttamente a Facebook, Twitter o Tripadvisor.

Ad oggi, in ogni caso, la strada maggiormente praticata nei processi ogniqualvolta venga contestata la veridicità dello screen di una pagina o di un post su Facebook è quella della prova testimoniale, che consiste nel sentire come teste una persona che possa confermare che la pagina prodotta in giudizio tramite lo screen è effettivamente quella vista all’epoca direttamente su internet.

Ovviamente, com’è intuibile, se nessuna contestazione dovesse esserci da parte dell’imputato circa la veridicità dello screenshot, il giudice potrà ritenere il medesimo idoneo a fondare un giudizio di penale responsabilità.

Come difendersi da un’accusa per diffamazione a mezzo social network? L’altrui provocazione esclude la punibilità

Come già accennato nel corpo dell’articolo, è bene che la difesa in caso di accusa per diffamazione aggravata a mezzo Facebook si occupi innanzitutto di accertare l’esistenza stessa del post o del messaggio che si assume essere diffamatorio e che questo sia stato effettivamente pubblicato sul social, raggiungendo due o più persone. A tal riguardo, è sempre bene effettuare investigazioni difensive, ricorrendo eventualmente ad esperti di informatica oppure chiedendo le opportune verifiche da parte della Polizia postale, nel caso in cui la persona offesa produca in giudizio gli screenshot del post, in quanto il contenuto dei medesimi va sempre e comunque verificato e valutato liberamente dal giudice.

Verificata l’effettiva esistenza e pubblicazione del messaggio offensivo, va poi operata un’analisi attenta e, soprattutto, elastica circa la sussistenza del requisito della continenza (la pacatezza nel manifestare il proprio pensiero, pur se critico), posto che, al fine di ritenere o meno superati i limiti del diritto di critica in relazione a tale requisito, è necessario compiere in concreto un ragionamento di tipo critico-logico che tenga conto di una serie di “parametri” quali, non solo il tenore letterale delle espressioni utilizzate, ma anche il concetto o messaggio che si vuole esprimere o trasmettere, il contesto dialettico in cui le stesse dichiarazioni vengono rese e le modalità con cui esse sono manifestate (Cass. Pen., Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 12186).

Ancora, sempre in ottica difensiva in caso di accusa per diffamazione, bisogna vagliare la possibilità di ricorrere alla causa di esclusione della punibilità della provocazione prevista dall’art. 599 c.p., secondo cui il diffamatore non è punibile se ha commesso il fatto «nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso». In altre parole, il codice penale non punisce chi ha manifestato un pensiero offensivo dell’altrui reputazione nel caso in cui le offese risultino reciproche, a patto che la persona che si assume essere stata diffamata abbia effettivamente tenuto un comportamento oggettivamente provocatorio od ingiusto – a nulla rileva la mera percezione soggettiva dell’offesa – tanto da fondare uno stato d’ira altrui e, soprattutto, a patto che le reciproche condotte siano collegate tanto a livello causale quanto strettamente temporale (“subito dopo di esso”).

Recentemente la Cassazione si è spesa ancora una volta sul tema dei confini del diritto di critica, garantito dall’art. 21 Cost., nonché sulla causa di non punibilità della provocazione con riguardo a una vicenda che aveva visto due soggetti pubblicare su Facebook post offensivi nei confronti di un ciclista professionista, la cui “colpa” era quella di non aver partecipato ad una gara, ritenendo che l’offeso avesse avuto nei loro confronti atteggiamenti provocatori.

Ebbene, la Corte ha escluso che, nel caso di specie, le affermazioni divulgate nei social dagli imputati potessero integrare un’ipotesi di legittimo esercizio del diritto di critica, e ciò in quanto questi ultimi avrebbero dovuto semmai segnalare tale comportamento a chi di dovere (più precisamente: al Coni o agli organi di giustizia sportiva), e non, al contrario, diffondere le loro opinioni in un contesto comunicativo totalmente avulso dall’ambito sociale in cui si sono generati i fatti, ossia quello sportivo. In secondo luogo, ha ricordato che «il comportamento provocatorio, costituente il fatto ingiusto, che causa lo stato di ira e la reazione diffamatoria dell’offensore, anche quando non integrante gli estremi di un illecito codificato, deve comunque potersi ritenere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in forza della mera percezione negativa che del medesimo abbia avuto l’agente. Non è dunque sufficiente che questi si sia sentito provocato, ma è necessario che egli sia stato oggettivamente provocato» (Cass. Pen., Sez. V, 18 gennaio 2021, n. 8898).

Si fa presente conclusivamente che le pene previste per la diffamazione permettono eventualmente alla difesa di chiedere una archiviazione o assoluzione per particolare tenuità del fatto nonché di ricorrere ad istituti di favore per il reo quale la sospensione del procedimento con messa alla prova.

Pene previste per il reato di diffamazione

La diffamazione è punita con la reclusione fino a 1 anno o con la multa fino a euro 1.032, raddoppiata (reclusione fino a 2 anni o multa fino a euro 2.065) se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato ai sensi del comma 2 dell’art. 595 c.p.

Quanto alla specifica ipotesi di nostro interesse, ai sensi del comma 3, in caso di diffamazione a mezzo stampa o mediante altri mezzi di pubblicità (Facebook, Whatsapp, Twitter ecc…) la pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a euro 516.

Prescrizione del reato di diffamazione

Il delitto in parola si prescrive nel termine di 6 anni, più 1/4 in caso di eventuali atti interruttivi del procedimento penale, per un totale di 7 anni e 6 mesi.

In tema di diffamazione tramite internet, è interessante la recente pronuncia della Cassazione che ha affermato che, ai fini della individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione e per il calcolo del termine per proporre querela, occorre fare riferimento, in assenza di prova contraria da parte della persona offesa, ad una data contestuale o temporalmente prossima a quella in cui la frase o l’immagine lesiva sono immesse sul web, atteso che l’interessato, normalmente, ha notizia del fatto commesso mediante la rete accedendo alla stessa direttamente o attraverso terzi che in tal modo ne siano venuti a conoscenza. Nel caso esaminato, la Corte ha ritenuto tempestiva una querela presentata ad oltre quattro mesi dalla pubblicazione del post sulla base della sola dichiarazione assertiva della persona offesa di non aver avuto per lungo tempo accesso ai social network (Cass. Pen., Sez. V, 30 aprile 2021, n. 22787).

Indicazioni sulla procedura

Venendo agli aspetti puramente procedurali in materia di diffamazione, si tratta di un reato procedibile a querela di parte e la competenza spetta al Giudice di pace per le ipotesi di cui al primo e al secondo comma, mentre spetta al Tribunale in composizione monocratica nei casi aggravati previsti dal terzo e dal quarto comma.

L’arresto e il fermo di indiziato non sono consentiti, così come non consentite sono le misure cautelari personali.

Art. 595 del codice penale - Diffamazione

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

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